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La riflessione di Mons. Vincenzo Rini

Qualche sera fa, all’incontro degli auguri natalizi del Rotary Cremona Po, erano stati invitati due musicisti, padre e figlio, per rallegrare la serata. Il primo a testimoniare la sua arte, all’inizio dell’incontro, è stato il figlio, Paolo, tra i venti e i trent’anni; sotto la guida attenta del papà, ci ha rallegrato con alcune musiche natalizie suonate al violoncello: una musica dolce, eseguita con fedeltà.

img_3633Il papà, Sergio, ha suonato, più tardi, utilizzando uno strumento di cui nessuno dei presenti aveva mai conosciuto l’esistenza: la “sega musicale”: un antico strumento, oggi raramente usato, formato da una sega trapezoidale da falegname in acciaio che viene suonata con un archetto da violino. Impressionante la bellezza dei suoni che da quel pezzo di metallo il musicista sapeva trarre.

Direte: cosa c’è di strano in questo? Nulla, se non l’amore infinito tra padre e figlio che, in quei momenti, è apparso agli occhi dei presenti. Paolo è affetto da sindrome di down; il papà è il suo maestro di musica e, attraverso la musica, di vita. Padre e figlio – lo si è visto in maniera chiarissima – vivono in sintonia: la musica li ha aiutati a realizzare questo legame d’affetto.

Ambedue ci hanno poi narrato come il loro rapporto musicale è nato e si è sviluppato. Il papà ha raccontato della gioia di riuscire a insegnare al figlio la musica e l’effetto meraviglioso che questo ha creato in Paolo. La musica è diventata per lui esperienza di vita e di autorealizzazione. Ha parlato anche Paolo, spiegandoci come il papà Sergio lo ha portato a trovare nella musica una ragione di vita. Tra le cose che ci ha detto, una frase, in particolare, ha colpito non solo me, ma tutti i presenti: «Sono stato molto fortunato!».

Mi sono commosso: con il cuore gli ho inviato una grande benedizione. La sua dichiarazione è stata una lezione di vita e di amore. Ho pensato ai tanti giovani che hanno tutto, magari troppo, ma che non hanno la “fortuna” di sentirsi fortunati. Mi è tornata alla mente una lettura di tanti anni fa che parlava di una gioventù “sazia e disperata”, di giovani a cui non manca nulla, se non la felicità di essere vivi, giovani; a cui manca il significato del vivere; in altre parole: l’amore vero. Perché la fortuna vera è nell’amare e nel sapersi amati.

Mentre Paolo suonava e poi parlava, osservavo il suo volto e quello di Sergio: l’amore che esprimevano i loro sguardi riempiva la sala. Se fosse venuto qualche musicista famoso a livello mondiale, avremmo battuto le mani alla sua arte. Ma qui, le mani le abbiamo battute non soltanto all’arte, ma all’amore e alla sua grande bellezza.

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